All’indomani della pubblicazione delle linee guida su passaggio da ambito a scuola.

Riprendere il confronto o votarsi ad un conflitto di difficile soluzione.

All’indomani della pubblicazione delle linee guida che regolamentano il passaggio dei docenti titolari di ambito alle singole scuole, è necessaria un’analisi ed una valutazione complessiva incentrata sul merito. Andiamo per gradi.

La legge sulla scuola ha in sé, sin dalla sua nascita e dal modo con cui è stata approvata, aspetti “ideologici” di difficile, se non di impossibile realizzazione.
La gestione del personale viene condotta secondo una logica di ordine gerarchico, piuttosto che demandarla all’ autonomia delle scuole con il supporto degli strumenti di partecipazione democratica. Ciò ha inevitabilmente fatto emergere le contraddizioni che, prima ancora che politiche, sono normative e di assetto giuridico.

La principale è la chiamata diretta. Questa si basa su un fraintendimento con il reclutamento, quest’ultimo sì riserva di legge. Non sarà superfluo ribadire che siamo in presenza di docenti abilitati, reclutati per concorso e, in molteplici casi, con diversi anni di esperienza lavorativa alle spalle.
Sul secondo elemento (il reclutamento) si dovrebbe operare attraverso l’uso della delega prevista dalla stessa legge 107; è quella la sede di discussione sulle modifiche da apportare. Sul tema la Uil Scuola si è dichiarata a favore di un modello che vede nelle scuole, associate in rete, il baricentro del nuovo reclutamento, fermo restando il sistema nazionale di istruzione.

L’altra contraddizione è rappresentata dal c.d. incarico triennale. Qui siamo in presenza di un paradosso giuridico: l’attribuzione dell’incarico a tempo determinato è un istituto che attiene alla dirigenza, che ha un obbligo di risultato; non è estensibile al personale docente che, avendo un contratto di lavoro subordinato, ha solo un obbligo, quello del facere, di svolgere, cioè, la propria attività senza demerito.

Sono le contraddizioni palesi, peraltro, riconosciute, ai tavoli di contrattazione dall’Amministrazione, che ha indotto la stessa, attraverso la contrattazione, a modificare lo stesso impianto. Seguendo tale logica si sono ricondotte nell’alveo della mobilità le contraddizioni della legge: si sono ridotti al minimo i titolari di ambito e si è rinviato alla sequenza il compito di regolarla con criteri di equità, di trasparenza, di imparzialità e di garanzia della professionalità dei docenti titolari di ambito. Su questo, va evidenziato come si tratta di azioni concordate e condivise.

L’accordo politico sulla sequenza c’è, esiste e non può essere disconosciuto. È vero che se non si firma un accordo le parti riprendono la loro libertà di azione, ma occorre coerenza e condivisione sia sotto il profilo giuridico che su quello più propriamente politico.
Questo non riguarda la competizione con il sindacato, ma la funzionalità stessa delle scuole e la certezza di status dei lavoratori.

Nell’accordo politico si sancisce appunto che:
a – non si parla di chiamata diretta, ma di passaggio da ambito a scuola;
b – viene meno il principio dell’incarico, si parla di assegnazione all’organico triennale;
c- si concorda sulle procedure, che devono essere caratterizzate da oggettività e garanzia di equità, senza alcuna discrezionalità del dirigente;
d – si stabiliscono alcuni requisiti ( quattro) per corrispondere ad alcuni elementi di flessibilità tra offerta delle scuole e domanda dei docenti.

Il mancato raggiungimento dell’accordo (unicamente sul numero dei requisiti), legati al punteggio della mobilità, ha fornito il pretesto per ribaltare il tavolo e lasciare alle scuole la gestione di un procedimento che lo stesso accordo politico riconosceva viziato in origine, di difficile attuazione e abbisognevole di modifiche.
Del resto l’accordo sulla mobilità ha realizzato proprio questo: ridurre a numeri marginali i titolari di ambito (si è passato da oltre 200.000 agli attuali 60/65000), senza considerare i soprannumerari che, è notizia di questi giorni, erano stati sottostimati.

Appare chiara, dunque, la contraddizione e l’avventurosità della scelta effettuata, peraltro, scaricata sulle scuole e sui dirigenti. Addirittura si è omesso, nelle linee guida, di considerare tra le altre norme e procedure le precedenze di legge, ma forse se lo sentiranno ricordare via skype dal Ministero. Per queste evidenti motivazioni, riteniamo la partita ancora aperta.

Lo stress test a cui il Miur ricorre appare solo un atteggiamento miope, tutto basato sulla propaganda e sul terreno dello scontro politico che la scuola, quella reale, non merita. Tra qualche settimana la parola passa ai docenti, agli studenti e alle famiglie: questa volta la valutazione dell’operato della politica passa al vaglio della società civile prima ancora che dalle aule di giustizia. A nessuno di loro il sindacato farà mancare il suo apporto.